Un’altra corsa al petrolio. Ma da “giacimenti” di sabbia bituminosa. Succede a Fort McMurray, nello stato dell’Alberta. Qui le miniere sono immensi canyon. Circondati da scorie e gas tossici. Siamo andati in un paradiso della natura che oggi è una discarica Non è una città per turisti, Fort McMurray. Un’infilata di motel e negozi di liquori, fast food, stazioni di servizio, accampamenti di roulotte e il cartello all’ingresso che, orgogliosamente, dichiara, «We have the energy», abbiamo l’energia. Qui d’inverno il termometro scende anche a meno 35 e le 80mila anime che abitano questa cittadina dell’ovest canadese, hanno poco con cui distrarsi, a parte le partite della squadra di hockey locale, gli Oil Barons. Qui, del resto, blasonati del petrolio lo sono un po’ tutti, anche se non si avvistano pozzi in questo «Emirato del XXI secolo”, come lo definisce la stampa locale. Che lo ribattezza Fort McMoney e qui dichiara aperta «la nuova corsa all’oro». Nero. E sporco. È «dirty oil» il petrolio che si estrae dal secondo giacimento più ricco del mondo dopo l’Arabia saudita: non sgorga dalla terra come in Texas, non viene dalle profondità tempestose come nel mare del Nord. Il petrolio di Fort McMurray è mescolato, in una poltiglia nera e velenosa, alle «tar sands», le sabbie bituminose che, nello stato dell’Alberta occupano 141mila chilometri quadrati di foresta boreale, il più grande ecosistema del mondo, poco meno di metà della superficie dell’Italia. Le conoscevano già i nativi americani che, di quell’impasto nero e appiccicoso, cospargevano il fondo delle canoe per renderle impermeabili, poi per decenni, dell’estrazione del dirty oil si sono occupate solo due aziende locali, la Suncor e la Syncrude. Nel 2003, con il prezzo del petrolio alle stelle, le major, Shell, Exxon, Chevron, Total e poi le cinesi Cnoc e Sinopec, hanno aperto 15 miniere a cielo aperto, che sono andate a sommarsi alle due degli inizi, con un investimento di 30 miliardi di dollari, che diventeranno 150 nel prossimo decennio, con l’apertura di nuove strade, la costruzione di oleodotti e raffinerie che, entro il 2015 dovrebbero essere in grado di coprire il 20 per cento del fabbisogno nordamericano. |
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